Maison des Journalistes: la casa parigina in cui i colleghi rifugiati mettono nuove radici

di Chiara Tenca

Dal 2002, anno della fondazione dell’associazione no profit, in 480 hanno avuto una seconda chance di vita. Ecco il racconto dell’incontro con alcuni di loro.

 

Hani ha perso il padre e tanti cari in un paese distante migliaia di chilometri, dove non potrà più tornare. Al dolore del distacco si sono sommati quelli della distanza, dell’impossibilità di osservare il lutto e di elaborarlo.

Nella sua nuova vita, però, ha trovato il modo di onorare chi non c’è più e di recidere finalmente quel cordone così difficile da spezzare: se non è stato possibile piangere sulla tomba dei propri morti, lo ha fatto su quelle degli altri. Non sepolcri qualsiasi, ma dei giganti della letteratura e della sociologia che hanno popolato il suo personale Pantheon e lo hanno confortato mentre era in carcere. Quasi gente di famiglia, insomma.

Dalla Siria a Parigi, dallo scenario dell’ennesima guerra che abbruttisce il mondo al Père Lachaise, il camposanto dei grandi: ad oltre 4000 chilometri dalla sua terra natale, Hani ha trovato il modo per ripiantare le sue radici e far cicatrizzare finalmente la sua ferita.

Rifugiato, giornalista, costretto a scappare dalla sua patria per colpa della penna che teneva in mano, ha trovato una nuova casa comune a chi condivide con lui lo stesso destino: al 35 di Rue Cauchy a Parigi è stata una pesante porta a vetri a dare il la a questa esistenza.

Corridoi, un saliscendi di scale, stanze che portano i nomi dei media francesi, bagni, libri, postazioni comuni, uffici.

Come per lui in passato, sono in 14 nel mese di luglio 2023 gli ospiti della Maison des Journalistes: un edificio che fa rima con speranza e pagine definitivamente voltate. Nel male e nel bene.

Chi apre quell’uscio si lascia indietro un mondo: perseguitato, incarcerato, a volte costretto a subire violenze, minacciato, perfino condannato a morte.

Tutto per una penna e per un taccuino, che dopo aver esser stati strumento per disturbare i potenti e denunciarne gli abusi, hanno finito per nuocere a chi li aveva in tasca. Ma non sono le uniche cose rimaste fuori dalla valigia, con un biglietto di sola andata in tasca: in patria restano anche famiglia, affetti, colleghi, beni e abitudini.

Arrivano dalla Siria, dall’Iraq, dall’Iran –  c’è chi ci tiene a precisare le proprie origini curde – , da Cuba, dall’Afghanistan, dalla Tunisia, dalla Guinea. Si chiamano Niyaz, Safoora, Adnan, Laura, Noorwali, Chokri, Alhussein e sono i colleghi che, grazie all’incontro organizzato nell’ambito del progetto Erasmus Plus sulla Comunicazione istituzionale e diplomatica organizzato dall’Ordine ligure dei Giornalisti, abbiamo avuto la possibilità di incontrare.

Dal 2002, anno in cui questa casa e associazione no profit ha aperto i battenti, sono passati da lì in 480, fuggiti da 80 paesi diversi.

“Non sempre i giornalisti devono fare gli eroi”. È stata una delle prime frasi che ci hanno detto, con cui hanno rotto il ghiaccio per una chiacchierata diventata uno scambio lungo ore in inglese, francese e lingue lontane, grazie alla traduzione di alcuni di loro.

Crollano i confini, si azzerano le distanze: noi curiosi della loro vita, sia quella vecchia che quella nuova, loro curiosi della nostra, del nostro paese, di come sia vivere in libertà. Cosa che stanno finalmente iniziando a sperimentare in prima persona.

Parole vibranti, di denuncia, altre che sanno di confessione e di reset, indispensabili per esorcizzare e guardare finalmente avanti.

Non avevo mai conosciuto un condannato a morte, perdipiù ingiustamente. Alla Maison des Journalistes gli ho parlato, mi sono seduta vicino a lui, abbiamo respirato la stessa aria, ci siamo sorrisi, ci siamo guardati. Facciamo lo stesso mestiere, ma mai come questa volta mi sono resa conto di quanta differenza possa fare la latitudine.

Eroi di penna, ma anche ragazzi come noi: l’Italia non è il Belpaese di santi, poeti e naviganti o l’agognata meta turistica per loro, ma uno stato in cui la libertà di espressione è scolpita nella Carta. Ci chiedono conto delle relazioni dei nostri politici con gli omologhi dei loro paesi, ci segnalano che da noi sbocciano progetti di cooperazione internazionale quali Human Advisor Project (https://humanadvisorproject.org/), che ha sede a Udine e opera, fra i vari paesi, in Afghanistan, di cui vorrebbero si parlasse. Detto e fatto.

Ma sotto sotto lo Stivale è anche, inevitabilmente, cultura mainstream: una delle patrie del pallone, nello specifico. E state tranquilli che quello è in grado di azzerare ogni differenza in un nanosecondo: “Juve merda!”, dopo avermi chiesto lumi sulla mia fede calcistica, è ciò che mi sono sentita rispondere da Chokri, milanista convinto. Me lo dice In italiano: potere dello sport.

È un pieno di emozioni, di storie, di racconti, di intenso scambio: avviene in uno stanzone fra scaffali di libri, un grande tavolo, sedie e divanetti, aria pesante, fiati che si mescolano, occhi che s’incrociano, mani che alla fine si stringono.

Sai che esistono i colleghi perseguitati, ma quando gli parli vis-à-vis sparisce ogni filtro: non c’è mediazione, non c’è edulcorazione. È un flusso crudo, grezzo, avviluppante in cui non ti stanchi di rimanere, seppur riesca a sfibrarti come una lunga corsa. Arriviamo al 35 di Rue Cauchy interessati, forse non del tutto preparati nonostante la presentazione del giorno prima, ce ne andiamo con il cuore gonfio e gli occhi lucidi. Riflettendo e assaporando con un gusto diverso la possibilità di esercitare il nostro lavoro in un paese libero.

All’ingresso, il bassorilievo in gesso di Anna Politkovskaja appeso al muro ci aveva messi in guardia: dietro gli occhialini, il suo sguardo severo su un mondo che l’ha trasformata in perenne testimone scomoda di ciò che accade quando vivi in dittatura era un antipasto da cogliere.

Lei è caduta, divenendo simbolo e monito imperituri. Niyaz, Safoora, Adnan, Laura, Noorwali, Chokri, Alhussein, invece, sono ancora vivi. Ce l’hanno fatta, piantando nuove radici all’ombra della Torre Eiffel, con un futuro ancora tutto da scrivere: la pagina bianca del loro nuovo taccuino.

“Non sempre i giornalisti devono fare gli eroi”. No, non sempre. Ma per alcuni è inevitabile.